Giuseppe Mule

Giuseppe Mulè

nacque a Termini Imerese (Palermo) il 28 giugno 1885 da Francesco, ebanista, e da Carmela Lombardo di Trabia. 

Cresciuto in ambiente sano e operoso, fu spinto dalla madre, frattanto capace di affrontare l’improvvisa vedovanza, a trasferirsi a Palermo per lo studio del violoncello. In conservatorio, sotto la direzione dell’intraprendente Guglielmo Zuelli, fu allievo di Giacomo Baragli, proveniente dalla scuola romana di Ferdinando Forino, dello stesso Zuelli e di Alberto Favara per la composizione.

Compagno di Gino Marinuzzi, si formò nel vivace clima culturale alimentato dagli ultimi Florio, gli imprenditori che diedero lustro alla città nella belle époque, e fu gradito agli ambienti aristocratici, dove la pratica della musica si nutriva di una nuova assiduità con i musicisti di professione: suonò in quartetto con Amalia, Maria e Felicita Alliata, figlie del principe di Villafranca, ed ebbe a protettore Giovanni de Spuches marchese di Schysò, fondatore di un’orchestrina di nobili dilettanti.

Nel 1903, scrisse per il suo strumento una pagina di caldo lirismo destinata ad ampia diffusione: il Largo composto per le nozze del fratello Diego, ma dedicato al proprio protettore, che entrò nell’uso corrente nelle cerimonie nuziali e, trascritto per archi, acquistò popolarità quale sigla della rubrica del santo del giorno in apertura delle trasmissioni dell’EIAR, poi RAI.

Conseguiti i diplomi di violoncello e di composizione, prese parte al processo di svecchiamento della vita musicale, avviato da Baragli e Favara, con l’attività del quintetto formato col fratello Giovanni, violinista.

Nel 1910, chiamato a dirigere il concerto promosso da Zuelli in onore dei sovrani d’Italia, presentò il Preludio della sua prima opera, La baronessa di Carini, mentre il soprano Amelia Pinto cantò la romanza A lei, composta di seguito a Pianto antico (1907); intanto veniva suonata al teatro Massimo l’Ouverture eroica, primo lavoro orchestrale.

Nel 1911 vinse il concorso Bonerba del conservatorio con l’episodio scenico in un atto Il cieco di Gerico, su testo del fratello maggiore Francesco Paolo, scrittore e giornalista. Il 16 aprile 1912, sulle scene del teatro Massimo, aperte alle novità locali, fu allestita La baronessa di Carini, tragedia lirica in un atto sempre su libretto del fratello. Accolta con favore, fu subito segnalata per la sua ‘sicilianità’, anche per il sapore popolare della fosca leggenda d’amore e morte riportata in luce dal folklorista Salvatore Salomone Marino (1870).

Da subito peculiare della poetica e dello stile di Mulè, l’elaborazione di un linguaggio ispirato in modo più profondo al folklore derivò dall’apprendistato con lo stesso Favara, che, impegnato allora in una pionieristica ricerca folklorico-musicale sfociata nel (postumo) Corpus di musiche popolari siciliane, indirizzava all’impiego del ‘canto popolare nell’arte’ ritenendo che la musica d’arte dovesse necessariamente trarre alimento da quella di tradizione orale.

Mulè diresse poi regolarmente gli allestimenti di teatri secondari quali il Biondo e il Politeama Garibaldi, con a fianco la moglie Lea Tumbarello, soprano marsalese. Nel gennaio 1920 ripropose al Biondo la sua seconda opera, Al lupo!, ancora su libretto del fratello: dramma lirico in due atti, di vaga ambientazione feudale in oliveti non lontani da Palermo, era già stato ben accolto al teatro Nazionale di Roma il 13 novembre 1919.

L’atto unico composto di seguito, La monacella della fontana (1920; libretto di Giuseppe Adami, da una leggenda ambientata nei dintorni di Monreale), fu segnalato al primo concorso nazionale dell’opera lirica da Francesco Cilea, Pietro Mascagni, Giacomo Puccini e Nicola d’Atri, e rappresentato a Trieste il 17 febbraio 1923; segno del suo successo è il nome di ‘via della Monacella’ assegnato alla strada vicino Fregene dove il musicista acquistò in seguito una villetta.

Nel frattempo, sull’esempio di Favara e Marinuzzi, Mulè trasse spunto da melodie e paesaggi siciliani anche per una suite sinfonica, Sicilia canora (Una notte a TaorminaFioriscon gli aranci), eseguita al teatro Massimo (1917) e all’Augusteo di Roma (1924), oltre che in varie trascrizioni per orchestrina e banda. Di accompagnamento orchestrale furono poi dotati i Tre canti siciliani (1930), originariamente per voce e pianoforte, su testi dialettali.

Negli anni Venti e Trenta la carriera di Mulè s’infittì d’incarichi accademici e politico-sindacali che lo impegnarono in modo autorevole nella vita musicale dell’Italia fascista, senza che ciò gl’impedisse di dedicarsi alla composizione e di percorrere la nuova fase creativa stimolata dall’incontro con il grecista Ettore Romagnoli.

Vinta una cattedra di armonia al conservatorio di Palermo, nel 1922 passò alla guida dell’istituto. Nel frattempo fu coinvolto nella nascita delle prime moderne istituzioni concertistiche della città, come membro del consiglio direttivo dell’Associazione palermitana concerti sinfonici e primo direttore artistico dell’Associazione siciliana Amici della musica.

Nel XXV anniversario della morte di Verdi diresse la Messa da requiem al teatro Massimo (gennaio 1926).

Alla fine del 1925 fu trasferito a Roma, dove la sua carriera volse verso impegni che lo resero famoso e potente fintanto che durò il regime.

Distintosi nella direzione del conservatorio di S. Cecilia come all’interno del direttorio nazionale del sindacato dei musicisti, nel 1929 fu nominato deputato al Parlamento (XXVIII legislatura) con Adriano Lualdi in rappresentanza del mondo musicale, e di seguito fu segretario generale del Sindacato nazionale fascista dei musicisti (oltre che accademico d’Italia e consigliere SIAE).

Membro del Consiglio nazionale delle corporazioni come di varie commissioni ministeriali, sino a quella per l’‘autarchia musicale’, e presidente di una sezione del ministero dell’Educazione nazionale, promosse i compositori fedeli alla tradizione italiana – non mancando però di denunciare il tecnicismo imperante nei conservatori – e nel 1939 finì per ostacolare la partecipazione italiana al Festival di Varsavia, vanificando l’operato di Alfredo Casella, che in altre occasioni aveva sostenuto.

Nel 1930 organizzò la Mostra nazionale di musica contemporanea e nel 1932 fu tra i firmatari del manifesto antimodernista, che accentuò le spaccature fra i compositori italiani.

L’epistolario custodito dalla figlia Carmela documenta tuttavia come Alfredo Casella e Gian Francesco Malipiero, bersagli primari di quel documento, avessero mantenuto rapporti assai amichevoli col principale esponente del Sindacato, che essi non ritenevano responsabile di quello scritto. Conservando memoria della stima goduta e della disponibilità ad accogliere le richieste dei maggiori compositori e direttori d’orchestra del momento, la corrispondenza di Mulè rivela quanto fitta fosse la sua rete di relazioni e amicizie, e dà prova della generosità ricordata come tratto suo peculiare (consegnato alla memoria dei familiari è anche l’episodio d’un ebreo nascosto in casa).

Nel frattempo i successi sul piano artistico si consolidavano grazie alla collaborazione con Romagnoli, ideatore delle rappresentazioni classiche a Siracusa (erette a Istituto nazionale del dramma antico nel 1925). Tramite fra i due fu Francesco Paolo Mulè, dal 1924 a Roma quale caporedattore culturale per Il mondo ma prima direttore dell’Ora, giornale palermitano che a quegli eventi, sin dal primo ciclo del 1914, diede grande rilievo.

Mulè scrisse molto per il teatro antico, da Le coefore di Eschilo (1921) a Ippolito di Euripide (1936), puntando alla convergenza fra il canto siciliano e l’idea di musica greca, secondo l’intuizione di Romagnoli che a nutrire il primo fossero gli stessi nomoi greci. Il sodalizio artistico si rafforzò con la comune esperienza di ricerca, nelle campagne del Siracusano, delle più pure cadenze dialettali e dei più antichi canti. Consistenti in intermezzi strumentali, danze e cori divulgati da Casa Ricordi in eleganti riduzioni per canto e pianoforte, le musiche di scena di Mulè furono a lungo apprezzate per l’incisivo descrittivismo, l’invenzione ritmica e l’impiego efficace degli strumenti, talvolta con sperimentazioni di suoni-rumore.

Frutto della collaborazione con Romagnoli fu anche l’opera più nota di Mulè, Dafni, poema pastorale tratto da un idillio di Teocrito, applaudito al teatro dell’Opera di Roma il 14 marzo 1928. L’infelice vicenda dell’Orfeo siciliano, innamorato della ninfa Egle e perciò inviso ad Afrodite, è piegata a coniugare mito antico e sicilianità in un tenue sentimento panico della natura, sulla scorta delle prime esperienze operistiche e della nuova scrittura arcaicizzante.

La sicilianità di Mulè trovò nuova e più aperta espressione in Liolà, dall’omonima commedia che Luigi Pirandello cedé a caro prezzo a Ricordi. Il successo dell’opera – laprima fu diretta dal compositore al teatro di S. Carlo a Napoli il 2 febbraio 1935 – derivò sia dai toni briosamente realistici, sia dalla consonanza col sentire fascista e persino con gli indirizzi sociali del regime: spirito amante, felice di lavorare in campagna, Liolà è immagine canora di energia vitale e fertilità volte infine – addolcito lo scioglimento pirandelliano – ad esaltare il valore della famiglia. Alla campagna isolana, ancora attraverso un folklorismo contiguo a Strapaese, Mulè guardò pure l’anno dopo, quando per il Festival di Venezia riunì tre impressioni sinfoniche sotto il titolo di Vendemmia.

Seguirono Taormina, idillio d’esile argomento ‘turistico-mondano’, che Mulè diresse alla radio e poi a Sanremo (4 aprile 1938), e La zolfara, dramma lirico presentato a Roma il 27 febbraio 1939 quale conclusione di un trittico su libretti di Adami. A partire da La monacella vi si snoda un percorso tutto siciliano, dalla leggenda alla modernità fino a un rude primitivismo ben espresso nelle tinte accese con cui inizia l’evocazione del primordiale lavoro in miniera e al suggestivo colorismo strumentale della Danza della frusta.

All’arrivo degli alleati Mulè fu allontanato da S. Cecilia, e anche dopo l’amnistia Togliatti – pur nel contesto della sotterranea ma robusta continuità col passato che caratterizzò la vita musicale italiana del primo dopoguerra – subì un pesante ostracismo, anche per motivi facili da intuire dietro l’augurio rivoltogli il 25 agosto 1945 dall’anziano Giovanni Tebaldini, di «tornare presto al suo posto di Direttore operoso e fattivo», a dispetto degli «intrighi» messi in atto a favore di «qualche insigne arrivista, ieri fascista tesserato fra i più attivi» (Roma, Arch. Mulè).

Deluso per l’eclisse dei tanti amici, salvo Franco Alfano e pochi altri, e sofferente per una nefrite, Mulè, che negli ultimi anni aveva scritto musiche per film, pensò a una nuova opera, Nausicaa. Qualche mese dopo il contributo elargito dall’Accademia nazionale di S. Cecilia per far fronte alle spese mediche, l’ultimo attacco di asma cardiaca lo colse nella sua casa romana, a molti nota per l’ospitalità.

Morì a Roma il 10 settembre 1951.

Il prestigio goduto da Mulè sotto il fascismo, oltre ad aver determinato il suo allontanamento dalla vita musicale all’indomani della Liberazione, ha pesato negativamente, forse più che gli orientamenti conservatori nella composizione, sulla fortuna postuma. Se la sua figura è per necessità presente negli studi sulla musica del Ventennio, ben poco è stato scritto circa la sua produzione, laddove il peculiare linguaggio liberamente ispirato ai caratteri della musica tradizionale siciliana (solo di rado con uso di citazioni, eventualmente dichiarate) si fonde con l’influenza verista in una dimensione di corposo e immediato lirismo che alle innovazioni della ‘generazione dell’Ottanta’ (a cui Mulè appartenne anagraficamente) antepone l’istinto etnico evidenziato dallo stesso Casella nel lemma dedicato a Mulè nel Grove’s dictionary of music and musicians(supplementary volume, 4a ed., 1940, pp. 452 s.). Più che l’attività volta a mantenere in vita il melodramma attraverso soggetti e stilemi legati alla propria identità, lo scarno giudizio critico ha ritenuto sinora più convincente la ricerca di un atavismo consono alla tragedia greca, con attenzione alle possibili radici del canto siciliano.

Il fratello Giovanni (Termini Imerese, Palermo, 29 ottobre 1888 – Roma, 11 luglio 1974), violinista e direttore d’orchestra, compose l’operetta O dolce voluttà (1922) e musiche d’intrattenimento. Il figlio Francesco (Roma, 3 dicembre 1926 –  4 novembre 1984) fu noto attore cinematografico e teatrale, pur in ruoli minori. Il nipote Giuseppe, figlio di Francesco, è un valente ed apprezzato violoncellista.

Opere: oltre ai lavori citati, si ricordano fra le musiche di scena per gli spettacoli siracusani anche Le baccantiMedea, Il ciclopeIfigenia in AulideIfigenia in Tauride di Euripide (1922, 1927, 1930, 1933); Edipo reAntigoneI satiri alla caccia di Sofocle (1922, 1924, 1927); I sette a Tebe di Eschilo (1924); Le nuvole di Aristofane (1927); oltre a La fattura di Teocrito (Paestum 1932); Giulio Cesare di Enrico Corradini (Taormina 1928). Inoltre: Tre vocalizzi e Primavera per voce e pianoforte, un Quartetto per archi, Canzone e danza araba per violoncello e pianoforte, Tema con variazioni per violoncello e orchestra (1940); diverse colonne sonore di film, tra cui Processo e morte di Socrate (1940; regista Corrado D’Errico) e Lucrezia Borgia (1940; Hans Hinrich).


Consuelo Giglio – Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 77 (2012).